La splendida Sala dei Giganti di Palazzo Bentivoglio a Gualtieri (RE), accoglie dal 3 settembre al 13 novembre 2016, l’antologica dedicata a Bruno Rovesti (1907-1987), “pittore contadino celebre europeo”, uno degli esponenti più autentici della pittura naïf italiana.
La rassegna, curata da Sandro Parmiggiani, organizzata dal Comune di Gualtieri e dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue, presenta 60 dipinti in grado di ripercorrere l’intero iter creativo di Bruno Rovesti e si tiene in contemporanea con l’esposizione del primo nucleo di 63 opere del Museo Antonio Ligabue per consolidare l’immagine di Gualtieri come luogo privilegiato per la conoscenza dell’artista.
La vicenda umana e artistica di Bruno Rovesti si lega a doppio filo sia con Gualtieri, paese dov’è nato e vissuto, sia con quella di Ligabue, che conobbe e frequentò, ancorché in certe sue prime dichiarazioni, successivamente da lui stesso confutate, lo ritenesse in un qualche modo suo ‘avversario’. Ricorda tuttavia Rovesti, nella sua ‘nastrobiografia’ - ovvero il racconto della sua vita incisa su nastro dalla sua voce e raccolto, su indicazione di Cesare Zavattini, da Alfredo Gianolio tra gli anni settanta e gli anni ottanta - che Ligabue “veniva in casa mia a prendere la polenta da mangiare, ci davo poco companatico perché ce n’era poco, però ci ho sempre dato qualche cosa, ci ho imprestato anche dei colori che gli ho regalato perché non li ho più visti. A ogni modo Ligabue […] era un grande artista, che ha sempre fatto cose molto belle. […] Ci hanno messo uno contro l’altro, è stata certa gente, gente analfabeta, che non sanno neanche cosa vuol dire un pennello […]. Io sono sempre stato uno che ha difeso Ligabue, anche quando gli tiravano della terra, gli tiravano dietro delle pietre, io questo non gliel’ho mai fatto, io gli ho voluto troppo bene a Ligabue […]”. La mostra analizza l’aspetto più autentico dell’arte naïf di Rovesti. Davanti ai suoi dipinti si respira la sincerità di un uomo che cerca di raccontare e comprendere quello che se ne sta intorno a lui, o che vede in qualche parte del mondo, dove si è recato o che ha visitato nell’immaginario, per conquistarsi una propria identità e una propria visione dell’umana esistenza.
Sulle sue tele scorrono persone, intente alle più varie occupazioni di lavoro o di svago, animali domestici, pesci, uccelli che volano nel cielo, case ed edifici, strade, ponti e piazze, alberi spogli che esibiscono le loro radici fuori dalla terra e tronchi tagliati come se fossero arti umani, ma anche, in tanti dipinti, una vegetazione lussureggiante che tutto assedia e che ovunque cresce, con gli stessi alberi che assumono le sembianze di fiori dai colori vivacissimi.
Ciascun elemento del creato è trasfigurato e reso con una felicità tonale sorprendente; tutto appare, nei dipinti di Rovesti, disposto in una prospettiva peculiare e in una sorta di sorprendente, insistita ripartizione geometrica dello spazio, come se volesse padroneggiare, nella stessa struttura del quadro, una qualche tendenza al disordine insita nel reale.
Le opere di Rovesti sono accompagnate, sul retro, oltre che dall’indicazione del prezzo di vendita (anche se è nota la ritrosia dell’artista a cedere una qualche sua opera, nonostante le accorate pressioni della moglie), da una fitta narrazione di ciò che lui ha inteso rappresentare in quel dipinto, intessuta di memorie e di rimandi che navigano senza sosta dentro il tempo e i luoghi: la lingua parlata dagli umili della Bassa, di straordinario interesse lessicale e immaginifico, che può a tratti ricordare il Mi richordo anchora di Pietro Ghizzardi, capolavoro del desiderio infinito di raccontare le vicende della propria vita.
Accompagna l’esposizione un catalogo Skira - prima monografia dedicata all’artista - che riproduce oltre ottanta opere a colori, in alcuni casi accompagnate dall’immagine del racconto che Rovesti aveva vergato sul retro, oltre a testi di Sandro Parmiggiani, Sergio Negri, Giuseppe Amadei, Alfredo Gianolio, Nicola Dusi e Lorenza Di Francesco, nonché la pubblicazione integrale della “nastrobiografia” di Rovesti, E dopo poi dopo, e una vasta antologia critica.
Bruno Rovesti, “contadino giù di terra” (come si autodefiniva, dopo che la sua famiglia più non disponeva di un appezzamento di terra da coltivare), esercita vari umili mestieri (servitore boaro, cavallaro, bracciante, barcaiolo, ranaio, ortolano e frutticoltore), è combattente in alcune delle guerre che si succedono tra gli anni Trenta e Quaranta e che gli lasciano come retaggio una ferita al polmone e la tubercolosi, per la quale viene ricoverato al Sanatorio di Castelnovo ne’ Monti (Reggio Emilia), dove inizia a dipingere nel 1948. Viene scoperto e sostenuto, come era avvenuto per Ligabue, da Marino Renato Mazzacurati, che gli organizza la prima importante mostra personale nel 1950 (Villa Massimo, Roma), alla quale fanno seguito esposizioni in Italia e all’estero (a Parigi nel 1966 e 1967) e mostre di gruppo (tra le altre, la VII Quadriennale di Roma e il Premio Suzzara, dove nel 1955 vince una pompa centrifuga per il dipinto Boscaioli). Presto Rovesti inizia a firmarsi “pittore contadino celebre europeo”, specchio della sua continuamente rimpianta originaria identità e della convinzione-aspirazione ad essere conosciuto in quello che considerava l’ambito più vasto e prestigioso, l’Europa. Tra gli autori che si sono interessati all’opera di Rovesti citiamo: Leonardo Borgese, Orio Vergani, Dino Villani, Anatole Jakovsky (il critico francese creatore del Musée international d’Art naïf a lui intitolato a Nizza), Oto Bihalji Merin, Renzo Margonari, Mario Pancera, Giorgio Ruggeri, Giovanni Cavicchioli, Alfredo Gianolio, Umberto Bonafini, Raffaele De Grada, Renato Barilli, Roberto Pasini, Maurizia Torza, Sergio Negri, Nevio Iori, Dino Menozzi.