Nessuno ha bisogno di ironizzare a mie spese, lo faccio da solo. Così Paul Klee, artista filosofo, musicista e poeta, uomo descritto come saggio e serio, scriveva giovanissimo nel gennaio del 1906, dopo un viaggio in Italia da cui era ritornato mortificato e depresso.
Impossibile uguagliare e superare la grandezza della cultura antica e del Rinascimento e lui che aveva scelto l'arte come filo conduttore della sua vita, non sopportava di diventarne un tardo imitatore, perpetuando un classicismo insuperabile. Solo la satira gli appare da allora un linguaggio moderno, capace di punti di vista critici originali. Certo non paragonabile alla bellezza delle arti passate da cui il suo gusto estetico era affascinato, ma sicuramente uno strumento utile, quasi una bussola per orientarsi nelle scelte del suo cammino. È il nuovo sguardo su Klee lanciato nell'ultima esposizione del Centro Pompidou, nell'area più alta del palazzo progettato da Renzo Piano, quasi sospesa sui tetti di Parigi. La mostra Paul Klee. L' ironie a l'oeuvre comprende in tutto 250 opere che seguono 35 anni di attività, a partire dagli inizi, intorno al 1905, fino alla morte, avvenuta nel 1940.
Per la prima volta l'opera di un'artista "difficile", pronto al confronto ma sempre attento a elaborare in maniera personale le novità di un secolo fecondo di sollecitazioni, viene letta attraverso il metro dell'ironia. "In precedenza si è molto insistito sul suo lato poetico e sognatore, o, al contrario, sull'aspetto teorico o su quello musicale", ricorda Angela Lampe, conservatrice del Centro Pompidou e curatrice della mostra. "La dimensione dell'ironia porta nuova luce perché questa posizione distanziata che Klee adotta va veramente al cuore del suo processo creativo in tutti i periodi della sua vita".
Di ironia mordace e sarcastica l'artista svizzero riempirà i suoi primi lavori, acqueforti, disegni e acquerelli, come "L'eroe con l'ala", grottesca caricatura dei miti classici, creatura aberrante con una sola mano e una sola ala. Attraverso la satira Klee troverà a poco a poco uno stile personale anche se il senso del ridicolo sembra non abbandonarlo mai, neanche nei suoi ultimi anni, quando alternerà il suo segno graffiante a mesti sorrisi, a metà tra il filosofico e il rassegnato. È il caso di Radiato dalla lista, autoritratto in forma di maschera africana senza espressione, la cui forza deriva da quella grossa X che ne cancella l'identità umana. Klee lo dipinse nel 1933, anno dell'ascesa al potere di Hitler, che segnò anche la fine della sua carriera di professore alla Kunstakademie di Dusseldorf. Nonostante la "purezza" delle sue origini razziali, il multiculturalismo della sua opera lo fece infatti inserire tra gli artisti "degenerati". Licenziato pochi mesi più tardi, ritornerà da esiliato a Berna, sua città natale.
Appena due anni prima con la matita su cartone e con sarcasmo pungente aveva disegnato il busto di Hitler, a cui assegna il titolo di Commensale, qualificandolo come un bevitore da taverna. Eppure, nonostante abbia ormai superato i 50 anni, queste sono le prime volte in cui ciò che accade intorno a lui entra nei suoi quadri. Fino ad allora la realtà era sempre stata vista in maniera distaccata, lontana, quasi sconosciuta. Il suo dialogo con le correnti artistiche, che "incorpora" sempre in maniera personale, sembra essere il fil rouge della sua esistenza, che resta caratterizzata dall'autonomia e dal rifiuto di sottomettersi al dogmatismo.
L'ironia diventa così per lui anche un'arma di difesa, un modo per trasgredire, ribellarsi e liberarsi da qualsiasi principio. "Io sono il mio proprio stile", dirà spesso. E anche nei dieci anni in cui insegna al Bauhaus non rinuncia ai suoi ideali "umani", oltre che umanisti, nonostante il fondatore della scuola di Weimer, Walter Gropius, proclami a gran voce l'unità tra arte e tecnica e cerchi di imporre i concetti della dottrina utilitarista e costruttivista. Lui, Klee, anche in questo caso reagisce con l'ironia. Le sue marionette suonano come una critica alla perdita di umanità del mondo industriale, mentre la ricerca di un equilibrio tra le sue intuizioni e i nuovi dogmi contemporanei sarà spesso rappresentata da un acrobata o dalla "Funambola", figura che si ripeterà spesso, anche negli anni hitleriani, come idea dell'artista - rappresentante l' umanità - costretto a camminare su un filo.
Neanche Picasso resterà immune dal suo sarcasmo. La mostra del Centro Pompidou mette in luce elementi fino ad oggi poco noti del rapporto tra Klee e il collega spagnolo, due anni più giovane di lui, la cui grandezza espressiva e potente personalità avevano soggiogato tutte le avanguardie. Klee, pur subendone l'influenza, critica il cubismo, "reo" di maltrattare uomini e donne, togliendo loro la vitalità e sparpagliandoli nel quadro a seconda delle esigenze compositive. Ancora una volta è l'ironia a venirgli in aiuto per combattere il "tormento Picasso". I suoi disegni in stile infantile ridicolizzano le figure prive di vita del cubismo, mentre con la serie degli Urchse prende in giro le due figure con cui Picasso amava identificarsi, il toro e il minotauro, trasfomandoli in mansueti buoi.
Unico l'incontro tra i due, e non molto loquace, come si racconta nel catalogo edito dal Centro Pompidou. Avvenne a Berna nel 1937, dove Picasso si era recato per motivi medici legati al figlio Paulo e dove Klee abitava. Era un sabato di novembre. Klee aveva invitato l'importante collega a far visita al suo atelier. Picasso arrivò solo nel tardo pomeriggio, con un ritardo di oltre due ore, e, affondato su una poltrona dove non era stato inviato a sedere, cominciò a guardare i dipinti che Klee gli porgeva. Non uno sguardo, né una frase per esprimere apprezzamento o elogio di quei lavori. Poche anche le parole intercorse tra i due. Tutto si svolse nel silenzio, tranne qualche minima richiesta sul tipo di tecnica usato. Si era fatto quasi buio: Picasso cercava una lampada per vedere meglio le opere. "Certo, sarebbe stato meglio vederle alla luce del giorno!", fu il commento di Klee che sottolineava il suo ritardo. Altri quadri mostrati, altre parole col contagocce, fino a quando un amico passò a prendere Picasso, il quale infilò il suo capotto e salutò. Non si sarebbero più visti.