Gli enti non sono da moltiplicare senza necessità
Guglielmo di Ockham
Mai come nei Tarocchi il “demone dell’analogia” di luterana e prazziana memoria, si è scatenato producendo varie modulazioni di scenari interpretativi del tutto fantasiosi, aleatori, incerti, a uso e consumo di una mania bulimica che indulge all’"immaginoso".
Occorre un “ritorno ab ovo”, che è sempre un riporsi le domande fondamentali, spesso eluse. La prima è decisiva: come si giocavano i Tarocchi? Non lo sappiamo? Bene, allora questa ignoranza va assunta e mai data per scontata: mai dimenticare che si tratta di un gioco giocato, quindi la sintesi visiva corrisponde a uno scopo pratico-etico-sociale imprescindibile. Eppure questi due fattori, 1. i Tarocchi sono un gioco e 2. non sappiamo come si giocassero, sono quelli su cui non si riflette mai abbastanza mentre dovrebbero essere gli scenari principali di ricerca. A noi qui interessa il secondo campo di analisi: il valore iconografico/iconologico dei Tarocchi, tema quasi banale se non fosse che quasi mai viene preso serio e in se stesso considerato.
Un buon metodo ermeneutico dovrebbe praticare la virtù della prudenza e “restare” nei limiti della figurazione. Da quali modelli provengono? Occorre non dimenticare la lezione di Warburg, di Propp. Qui analizzeremo alcuni esempi tratti da tre mazzi: il Bembo, il Colleoni, e il “Nicola di Mastro Antonio” o “Sola Busca”, il primo e il terzo appartenenti alla Pinacoteca di Brera. Il raffinato e aureo mazzo Bembo non riserva grandi sorprese iconografiche, in quanto ci parla di un mondo cortese, nobiliare, che assorbe nella “figurazione da gioco” temi e modelli già assai diffusi, come il cavaliere, l’innamorato/a che sostano (in un implicito giardino) meditabondi brandendo una lunga freccia (quella che ha trafitto il loro cuore), la Ruota della Fortuna, l’Imperatore, reso nel più classico dei modi, fino a una resa del tutto araldica della Spada, con tanto di motto: “a bon droyt”.
Se stiamo al mazzo Bembo non possiamo che concludere subito che i Tarocchi erano un normale gioco da tavola riservato alle classi elevate quale sublimazione di giochi più popolari. Abbiamo conferma di questa “normalità” figurativa in altre figure: il fante, il cavaliere di coppe, le figure di denari. I primi recano una coppa perfettamente corrispondente ai canoni pittorici tre-quattrocenteschi, simile alle coppe dei Re Magi nei quadri dedicati all’adorazione natalizia, come pure ai vari “gradali” da miniatura, laici o sacri che siano. I “denari” sono resi in modo realistico in corrispondenza alla numismatica contemporanea.
Se passiamo al mazzo Colleoni la conclusione non sarà dissimile. Anche qui le coppe sono quelle cortesi o paraeucaristiche, le spade derivano da emblemi araldici, i cavalieri sono cavalieri e le allegorie sono le tradizionali allegorie virtù/vizi. Di speciale notiamo un’influsso dell’iconografia zodiacale (anch’essa canonica) nella Donna che brandisce una stella e in quella che reca una falce di luna, e ciò richiama alla mente il De Sphera e gli affreschi di Palazzo Schifanoia di Ferrara. Per il resto: il seme dei denari sono monete correnti e il tutto proviene dai canoni basilari dei mondi cavallereschi. Purtroppo (per fortuna) anche qui nessun mistero o magia o significato occulto a meno di non fantasticare su quelle monete con raffigurato un sole fiammante. Ma mi sembra un po’ poco quale “materiale esoterico”. È quasi istintivo, per un artista di sei secoli fa e per suo mero estetismo, abbellire le monete, se non si rendono in senso totalmente realistico, di un qualcosa che richiami un’analoga rotondità/discolarità: il sole! Non si usa poi il fuoco nella metallurgia numismatica? Si tratta poi del comune “disco fiammante” cristico che riempie gli affreschi quattrocenteschi nelle pievi e abbazie romaniche di mezza Italia! Una citazione quindi di tipo estetizzante, “alla moda”, quasi dovuta!
Certamente più intriganti le immagini, molto più numerose, del terzo mazzo, il più antico d’Italia! Il suo ricco immaginario si può ridurre a due dimensioni: gli stilemi e i personaggi storici. La maggior parte degli elementi figurativi deriva dall’incrocio di questi due fattori e risponde all’esigenza di contestualizzare quale “gioco giocato” la memoria semantica di personaggi importanti per la cultura letteraria dell’elite, con allusioni/istanze evidenti di tipo celebrativo e di rimitizzazione. Abbiamo infatti Alessandro Magno, Cleopatra, Nerone, Polissena, Nembrot, Elena di Sparta, e altri. Un vero e proprio “mazzo vip”, dove il tempo del gioco e il tempo immaginario delle lettere, del mito e della storia si intrecciano.
In alcuni casi, come per Alessandro Magno (=Re di spade), il personaggio viene riformulato all’interno del suo mito antico-medioevale: compare sul carro trainato da quattro ippogrifi che lo vede in veste di esploratore del cosmo, come nell’arazzo a lui dedicato in Villa del Principe (Genova). In altri casi i personaggi storici sono “messi in scena” in modo magniloquente o buffo, come l’Elena che si specchia vanitosa e Polissena glorificata da un carro adornato da delfini e per la quale il serpentello che esce dalla brocca indica solo il particolare del mito che parla di un serpente presso la sorgente-fontana (= la brocca, nel tarocco) del tempio dove Achille uccide Troilo e ne rapisce la bella sorella.
Questo dettaglio ci svela come l’apparente enigma (qui dato dalla presenza del serpente) sia solo appunto un’apparenza percettiva dipendente dalla scarsa nostra conoscenza o insufficiente padronanza del tema narrativo allora in voga. Notiamo poi il Nerone (carta VIII) che sembra un soldato erodiano alla strage degli innocenti (lapsus? motivo di teatralizzazione?), ma in realtà visto più attentamente rientra nella tradizionale narrazione tacitiana di Nerone autore del terribile incendio di Roma, qui sintetizzato identificando visivamente il mandante con la stigmatizzazione dell’esecutore.
Ogni carta è un capolavoro di condensazione espressiva e di valore etico assai chiaro: positivo o negativo. Le carte non sono mai ambigue altrimenti non puoi giocarci! Non dimentichiamo che molte carte sono numerate e segnate, non nascondendo quindi una funzione pratica di gioco in un’articolazione multipla della gerarchia dei valori, che non viene lasciata solo ai semi e al loro numero (es: le carte VIII, X, XVI e XVII). Gli stilemi di questo mazzo rispondono a esigenze sia decorative che narrative e derivano tutti dall’iconografia allora in voga nelle arti, ritrovandosi facilmente in contesti altri quali: candelabri, stucchi, festoni, stemmi, caminetti scultorei, cammei, miniature. L’effetto che “frega” noi contemporanei, inducendoci alla lettura/ricerca ossessiva/ideologica di un “sottotraccia” ulteriore deriva dal surplus di loro efficacia espressiva e dalle esigenza di estrema sintesi figurativa propria della carta da gioco.
Si genera così un tipico “effetto rebus/cocktail” che resta in realtà dentro un chiaro quadro generale di tipo etico/allegorico, come per ogni gioco giocato! La “messa in scena” narrativa viene realizzata sia con elementi aristocratici (festoni, stemmi, medaglioni, erme, teste di ariete, scudi, cornucopie, scranni, troni, panoplie) che con dettagli popolari di costume (borracce di zucca, lucerne, l’uccellatore, il paggio con il portamonete, le stanghe da lavoro, la gerla, il pozzo).
Molta fantasia anche nel porre elementi che sono sia estetizzanti sia utili per “mostrare” i semi delle carte, raccogliendoli in “contenitori” ideali, magniloquenti, eleganti: altari, faretre, grandi anfore, crateri, fontane. Esistono poi dei tarocchi che svolgono chiaramente la funzione di “carte intermedie” (non contengono semi ma solo segnature e che rappresentano il tema del viaggio o un ammonimento etico): il suonatore di cornamusa con il corvo, i putti reggistemma con un motto didascalico (e lo stemma è identico a quello dei festoni del Cenacolo di Leonardo), il viandante della carta X, il “Catone” della carta XII, il Nembrot punito da Dio della carta XX (sembra una scena da palcoscenico), e molte altre.
La fantasia dell’autore attinge a qualsiasi fattore stilistico: basti pensare al volto da “mascherone” del 10 di coppe, al tritone del nove di coppe, al reggiputto del sette di coppe che sembra “una fontana della giovinezza”. Come stupenda è quella figura femminile a metà strada fra la “ninfa al bagno” e il san Cristoforo nel suo cristico guado, posta a reggere il nove di bastoni; e ugualmente irresistibile il braciere laminato che “presenta in visione” il nove di denari. Una tentazione per ogni appassionato di alchimia e di simboli (troppo facile e autoreferenziale però l’accostamento!). Il tarocco doveva risultare chiaro nel suo senso di gioco, ma pure elegante e gradevole nella sua presentazione. Questo mazzo ci dimostra come l’indagine prioritaria sulla figurazione dei tarocchi deve portare a confrontarli con le prime raccolte di repertori allegorici, come il Libro degli emblemi di Alciati e l’Iconologia di Cesare Ripa. Ne troviamo conferma ad esempio in certi attributi come lo strumento di misurazione posto in mano al console “Catulo”, allegoria tratta dal mondo degli agrimensori/edili, e, quindi, allegoria di prudenza/sapienza.
Concludendo possiamo sostenere che di ben 82 tarocchi solo cinque del mazzo “Sola Busca” sembrano resistere a un primo inquadramento ermeneutico: l’otto di denari (perché il teschio?), il sei di denari (perché il fabbro?), il dieci di denari (perché il candelabro con candela e la palma?), e specialmente il cinque di denari dove tutto sembra sfuggire nella rappresentazione di un uomo addormentato e accovacciato, con ali, un sacco nero, capelli raccolti a codino, una bacchetta (magica?), e uno scudo rosso! Il demone dell’analogia incontrollata si calma però se ricordiamo i nostri limiti di metodo: non conosciamo le regole di questo gioco e non siamo documentati pienamente sull’amplissimo bagaglio immaginale quattrocentesco.
Nessun mistero invece per la carta II del console Postumio, il quale reca uno scudo allegorico con una palma (=martirio) e un eroe privo di testa: il console fu decapitato dai Galli e la sua testa usata quale coppa per brindare. Come pure per la carta XV di Metello dove le fiamme, lo scettro e lo scranno possono alludere all’episodio dell’incendio del Tempio di Vesta e al suo intervento salvifico.
La notevole presenza di personaggi dell’antica Roma reca una conferma del valore allegorico e celebrativo di questo gioco sgombrando il campo da inutili ipotesi che distraggono dal gustare la bellezza assoluta di questo micro teatro, di questo gioco dell’Oca “aperto”, di questo Labirinto del Fato e Corteo senza fine di maschere che sono i Tarocchi. La semiotica e l’iconologia recano ancora ricchissimi tesori e campi di ricerca. Il segno indica, non allude. Quindi non usciamo dal Regno del Segno!