Tutti gli antichi infatti hanno espresso sotto forma di enigmi
ciò che riguarda gli dei e i demoni, ma Omero ha reso ciò
ancor più oscuro, parlandone non direttamente,
bensì servendosi dei racconti per mostrare altre cose.
(Sullo Stige), Porfirio
Io son, cantava, io son dolce serena,
Che i marinari in mezzo’l mar dismago,
Tanto son di piacer a sentir piena.
Io trassi Ulisse del suo cammin vago
Al canto mio: e qual meco s’ausa,
Rado sen parte, sì tutto l’appago.
(Purgatorio - XIX, 19-24)
L’episodio dell’Odissea che riguarda le Sirene si sviluppa in tre momenti: il racconto di Circe, ultima conversazione, notturna, che ha con Odisseo prima della sua partenza, il racconto di Odisseo ai compagni di navigazione, e l’incontro diretto con le Sirene. Soffermiamoci su alcune parole greche “chiave” in ciascuno di essi. Circe si siede di notte vicino a Odisseo e sancisce la conclusione della permanenza/prova di Odisseo presso Aiaia. Odisseo è appena tornato dal regno dei morti, da una esperienza allucinatoria ed estatica pericolosa. Circe non può più trattenerlo, ormai l’eroe è maturo, è simile a lei. Circe viene descritta quale potnia cioè “signora”, lo stesso epiteto di Artemide quale “signora delle bestie” e proclama che ogni cosa è pepeirantai, termine che indica “maturazione” al sole ma anche evoca l’essere persuaso, ingannato, l’essere passato attraverso un esperienza. Uno dei nomi delle Sirene non a caso è Peitho, la persuasione.
Dopo il suo ritorno a Aiaia, nome quasi onomatopeico per un grido rituale, dopo la sua sopravvivenza alla prova dell’evocazione delle ombre Circe dichiara dall’alto dei suoi poteri sacerdotali e sacrali che “tutto è concluso” nel senso che ogni prova è stata superata. Le Sirene saranno un appendice alla prova appena passata, e già sirenica, dell’attraversamento dell’Ade. Le parole di Circe aprono a una dimensione di “bonaccia”, di dilatazione spirituale. Circe avverte Odisseo sul potere delle Sirene di ingannare. Il verbo usato è thelgo che significa anche “accecare, incatenare, addormentare”. Il canto delle Sirene viene descritto quale voce ligyrè, cioè acuta, stridula. E’ un aggettivo che si predica anche per il suono dei venti. Una sonorità certamente fascinosa ma ben distante dall’idea contemporanea e neoromantica di un suono dolce e melodico. Scontiamo un doppio deficit di conoscenza: relativo al senso del suono e della musica per i greci antichi e relativo alla precisa funzione ontologica delle Sirene.
Una voce/suono simile non è infine connettibile automaticamente con la musica, ma potrebbe trattarsi di un verso di richiamo o di un grido rituale. Lo stesso aggettivo infatti viene utilizzato per le grida delle menadi e per gli urli di caccia di Artemide e del suo seguito. Potrebbe trattarsi di una sonorità tipica di una danza estatica e orgiastica. Circe descrive le Sirene come esseri che “sono” nel prato fiorito. Si usa un verbo d’essere come se il prato coperto di fiori fosse un dato coessenziale alla realtà delle Sirene. Questo aspetto conferma l’episodio di genesi delle Sirene quali compagne di Proserpina. Accanto alle Sirene l’immagine enigmatica e cruda delle “pelli che si consumano” sulle ossa di uomini che marciscono. Si usa il verbo minuthousi che significa letteralmente "diminuire". Compare il tema del “consumarsi” che ritroviamo nelle Argonautiche nella consumazione quale morte per languore che inducono le Sirene stesse le quali non uccidono direttamente ma portano alla morte tramite uno stato di prostrazione, di inedia per un dolce asservimento. Erano baccanti che stordivano somministrando droghe? Questa immagine di consunzione viene ripetuta poche righe dopo da Circe quando accenna alla necessità di “ammorbidire” la cera “dolce come il miele”.
Il verbo depsesas indica anche “macerare” e insieme a pytho e a minutho formano un'idea di marcire, uno scenario di corruzione come fosse una fase rituale, programmata, significativa. L’elemento comune di questo enigmatico contesto appare l’elemento igneo/solare, il solo capace di ammorbidire, consumare gradualmente e corrompere. Le Sirene si confermano paradossalmente legate più al sole che all’acqua! Dopo tutto questo Circe stessa si comporta “da Sirena” inoculando nella mente di Odisseo il fascino per l’ascolto della voce sirenica in quanto dice che “se lui vuole” potrebbe ascoltarlo con le note precauzioni. Il verbo usato da Circe è anche questa volta un verbo allusivo e ambiguo in quanto significa: "desiderare", "volere, acconsentire, dovere e potere". Un termine ad ampio raggio. E infatti vedremo fra poco nel secondo momento sirenico dell’Odissea come questa induzione mentale di Circe avrà grande successo nella mente di Odisseo.
La sacra veggente continua il suo insegnamento sirenico utilizzando un'altra parola allusiva: istopedes, la quale indica la “base dell’albero della nave” a cui deve farsi legare Odisseo ma pure richiama l’analogo termine che comunica il significato delle “aste del telaio”. Il telaio di Circe, delle ninfe, di Penelope ed Elena e delle Moire. Il telaio cioè di Ananke che tela la fatale via eroica di Odisseo la quale passa per questa prova sacrificale delle Sirene. Che Odisseo debba essere legato per “mani e piedi” non è dettaglio ovvio e questo aspetto richiama chiaramente il gesto di legare le vittime sacrificali. Il celebre toro di Aghia Triadia lo illustra emblematicamente. Lo stesso Odisseo nell’Iliade viene paragonato a un ariete e nella spedizione contro Dolone si veste con un copricapo con denti di maiale. La parola usata da Circe per indicare il gesto del legare il corpo del suo eroico adepto è anapto che significa “annodare” ma anche “accendere, appiccare il fuoco”. Il secondo momento sirenico inizia con l’improvvisa evanescenza di Circe all’arrivo dell’aurora. Circe “dai bei riccioli”, ma euplokamos significa anche “dai molti tentacoli da polipo”, ennesimo dettaglio sirenico di questa figura teofanica, diventa invisibile ma non cessa di operare in quanto invia un vento propizio per la nave di Odisseo, rivelandosi così anche potenza connessa ai venti come le Sirene nel loro aspetto ornitoforme. Nel congedare Circe il testo omerico non è avaro di sfumature preziose riguardo la bella veggente la quale viene qualificata quale divinità deinos e andeessa, cioè “funesta, terribile, spaventevole”, come possono esserlo anche le Sirene e le sfingi quali esseri esecutori di Nemesi/Ate, ma pure “parlante voce umana”.
Due attributi apparentemente contrastanti. Il primo viene predicato degli dei quanto delle bestie selvatiche feroci, mentre il secondo ci fa capire molto di Circe e delle Sirene in quanto la “voce umana” diventa motivo di stupore e quasi anomalia per un essere che viene raccontato secondo un'ontologia ibrida, sovraumana e pre-umana nel contempo, analogamente all’immaginario sirenico. Circe viene qualificata dall’Odissea nello stesso modo in cui non vengono qualificate le Sirene. E’ il regno dei demoni, intermedi fra dei e uomini, anche se Circe viene descritta chiaramente quale “dea”, ma una dea dai contorni metamorfici, primitivi, ancestrali e quindi difficili da inquadrare umanamente. Erano sacerdotesse veggenti mascherate? La stessa incertezza ontologica a cui appartengono le Sirene. Nell’Odissea non si parla di “canto” delle Sirene ma sempre di psthoggon, cioè più genericamente "voce/suono". Odisseo avverte i compagni di un pericolo duplice: voce e prato fiorito, come fossero pericoli connessi ma pure distinti in quanto dotati di una loro autonomia. Odisseo nel raccontare le Sirene ai suoi compagni si comporta da sirena in quanto mente. Racconta che lui deve essere legato all’albero della nave come a obbedire a un preciso comando di Circe, mentre invece Circe gli ha solo suggerito questa possibilità. Non poteva più facilmente coprirsi di cera le orecchie? O forse Circe ha indotto sirenicamente Odisseo a compiere questo rito simbolico proprio perché indispensabile a superare indenni la prova delle Sirene? Odisseo legato mani e piedi all’albero della nave è offerta votiva, simulacro vivente, sostituzione rituale e simbolica di un vero sacrificio umano a cui molto assomiglia. Nella pittura romana del British Museum Odisseo ha volto di donna e, unico nella scena, una corona bianca in capo, come le vittime sacrificali. Anche il gesto di tagliare la cera sembra un rito.
La parola usata per la grande massa di cera da sminuzzare è trokos, cioè "disco, ruota". L’allusione è chiaramente volta al disco solare e alla ruota di Ananke, di Issione e di Yinx. Ma trokos indica anche un pesce. Continua l’allusiva ambiguità delle Sirene che sembrano contagiare tutto e tutti della propria metamorfica ontologia. Odisseo taglia il disco di cera, cioè eclissa il sole divorandolo, con una “punta” di bronzo, che ricorda gli aculei delle api e delle Erinni e la punta minacciosa che una Sirena alza verso la nave di Odisseo nella pittura romana che abbiamo citato prima. Cera e bronzo. Colori solari, ignei. Con il bronzo si suonavano timpani e cembali per allontanare le api e prendere il miele e con nacchere di bronzo Heracle fa alzare in volo gli uccelli di Stinfalo che non sono altro che Sirene della palude, simbolo delle febbri e dei colpi di sole secondo Graves. Nel tempio di Artemide Stinfalia erano appesi simulacri bronzei di donne alate con piedi d’uccello. Sirene, appunto.
La parola Stinfalia allude a una moltitudine pungente e probabilmente anche al “fallo”. C’è tutta una famiglia di parole significative che presentano la stessa radice: falena, Falero… Graves ricorda come Rea avesse fra i suoi attributi un tamburo bronzeo che usava per evitare che le api sciamassero disordinatamente e per allontanare gli spiriti maligni. Ancora una volta eros e thanatos vicini in un contesto sirenico. La cera diventa molle, immagine simile al corrompersi delle pelli e delle ossa umane, non solo per il lavoro delle mani di Odisseo ma pure per la grande forza solare del titano Iperione. Nel mezzo del giorno Odisseo nel culmine del calore, cessati improvvisamente i venti, incide nel mezzo la grande ruota di cera e chiude le orecchie dei suoi compagni. Chiaramente è un rito. Che ci faceva della cera su di una nave? Per sigillare i cadaveri? Come offerta agli dei? Per far finta di essere morti in quanto i morti venivano ricoperti di cera? Oppure il solare disco di cera è stato dono di Circe, figlia del Sole? Negli antri si tenevano in anfore le preziose arnie e si offriva il miele a Proserpina e a Dioniso.
Il racconta sottolinea con grande evidenza la forza del sole. Nel momento in cui Odisseo taglia la cera si parla di grande forza di Helio e di splendore del “Signore Iperione”. Ci si appella a quei titani che compaiono, con Sisifo, anche nella stirpe di Odisseo stesso. Una forza ancestrale che chiama come paragone/evocazione i più antichi numi solari. Compare un verbo che sembra allusivo, anche nel suo accostamento anomalo con la cera che si ammorbidisce: keleto, da kelomai, il cui significato principale indica l’eccitamento, il “chiamare”, l’incoraggiare. Ridurre il tutto al dinamismo fisico della vampa solare che “spinge” la cera a sciogliersi sembra uno scenario semantico eccessivamente riduttivo. Cosa c'entri tuttavia questo con la cera che inizia a sciogliersi appartiene al nucleo più enigmatico dell’essenza sirenica. Un'allusione al dionisismo dei riti sirenici? Un elemento da accostare all’etimo di seiren da riportarsi seìo cioè “mi agito, tremo, scuoto” da cui seirios, ardente da cui l’ardente “Cane” Sirio? Un allusione al deliquio erotico/estatico di riti orgiastici?
Continua il 14 Febbraio...