Abbiamo visto che l’inizio della Prima guerra mondiale fu il compimento di quell’isteria collettiva che, all’inizio del secolo scorso, delineava gli esseri umani come desiderosi di menare le mani, combattere, distruggere. Senza pensare di dover essere distrutti. Senza i giornali e i manifesti che identificavano come negativo, cattivo, crudele, anche satanico il nemico, sarebbe stato ben più difficile convincere l’opinione pubblica della necessità di combattere. Gli uomini non sarebbero stati facilmente arruolabili, le donne non avrebbero insegnato ai figli che dovevano combattere e avrebbero di certo sofferto e protestato più seriamente dinanzi alla sciagura di vedere i propri figli cadere per la patria e via discorrendo.
La Grande Guerra fu anche la guerra di tutto il popolo di ogni Paese coinvolto. Fu la prima vera e propria guerra totale. Quindi la propaganda era indispensabile per mantenere alto il senso di appartenenza nazionalista che permetteva di sostenere il peso psicologico del conflitto, oltre a quelli materiali. Se è vero che il parere del popolo era importante già nell’antichità, è anche vero che all’inizio del Novecento la popolazione dei vari Paesi contava molto più di un tempo, e questo la rendeva sempre più indispensabile per ottenere consenso e appoggio ai governi. I Paesi che investirono maggiormente in propaganda furono quelli anglosassoni, Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre meno investirono gli altri. Senz’altro l’impero austroungarico, forte dell’idea che i sudditi dovevano obbedire e alle prese con un deficit già voraginoso per pensare di investire nella persuasione.
L’Italia aveva investito soprattutto nel dibattito tra intervenisti e neutralisti, dipingendo il nemico austriaco come un galletto (pur raffigurando l’aquila del simbolo) da infilzare e facilmente da cuocere allo spiedo. Quasi nulla la persuasione in Russia, sempre per la forte presenza dell’impero zarista che riteneva doverosa la partecipazione del popolo alle proprie decisioni, senza ammettere dissidenti che non potessero essere fucilati. Era necessario convincere i popoli, oppure continuare a ricordare loro, che la guerra era giusta, doverosa, utile, necessaria. E vennero messe in campo strategie stampa tali da porre le basi per le tecniche di persuasione, soprattutto commerciale, che vennero perfezionate alla fine del conflitto. Utili furono le teorie freudiane che vennero adottate per confezionare messaggi e spot utili per l’arruolamento, oppure per sostenere lo sforzo bellico da parte delle donne, come dei ragazzi necessari per il fronte.
Fondamentale fu considerare il popolo, la massa, come stupida, adatta a “bere” tutto quanto le si propinava, capace di soffrire solo se pensava che la causa fosse giusta e se si era bravi a farglielo credere. Fu su quelle esperienze che Lippmann, nel 1922, coniò la locuzione “fabbrica del consenso” che si utilizza ancor oggi. La drammatizzazione dei fatti; la ridicolizzazione del nemico per renderlo stupido e battibile agli occhi dei più, si accompagnavano alla produzione di efficaci volantini e pubblicità disegnate alla perfezione. Ma anche alla manipolazione delle immagini. La fotografia fu molto diffusa durante il primo conflitto mondiale e alterare le immagini per renderle più adatte al proprio pensiero, alla propria teoria o alle proprie verità, divenne un metodo efficace per coniare cliché utili al conflitto. Ancora, l’opinione pubblica doveva avere paura del terribile nemico, perché era senz’altro crudele, senza scrupoli, senza Dio. Allo stesso tempo, non doveva essere meno degli altri che combattevano, sfruttando l’effetto gregge secondo il quale si tende a seguire le orme degli altri, per effetto emulazione.
Le azioni del nemico venivano ingigantite o enfatizzate per renderlo ancor peggiore di quanto non fosse, e i termini utilizzati venivano scelti con somma cura per ottenere il miglior effetto sul pubblico. Bene era cercare di avere, trovare o comunque strutturare un capro espiatorio, in modo da dare alla gente qualcosa di tangibile da odiare, qualcuno che si pensasse davvero di uccidere, perché fosse più facile provare odio e, quindi, senso di solidarietà con chi uccideva. Ogni azione al fronte, doveva avere cassa di risonanza sul pubblico, e allora i giornali riportavano l’uso dei gas o delle mazze dietro le linee nemiche. Si doveva sottolineare la necessità di combattere in trincea per tenere lontano dalle proprie case quel mondo di morte, ma anche preparare la gente a sostenere il peso della guerra, se questa si fosse avvicinata alle case, come in effetti accadde. Si doveva utilizzare la propaganda, i giornali, i volantini per informare sull’utilizzo delle maschere antigas sia al fronte, anche con libretti appositamente stampati, sia i civili, nel caso il nemico avesse adoperato quei terribili mezzi di morte in modo vile contro le popolazioni.
Se il nemico doveva essere dipinto come un diavolo capace di ogni misfatto, la patria doveva essere vista come radiosa e bellissima. Allora le cartoline per i soldati italiani al fronte, soprattutto tra 1915 e 1916, dipingevano bellissimi quadretti di bambini a cavalcioni del tricolore sabaudo. La prima di queste viaggiò il 6 giugno 1915. Un’altra serie di cartoline vedevano una donna, l’Italia, avvolta nella bandiera tricolore a accanto a questa c’erano cartoline che ritraevano la famiglia reale per la quale si combatteva, per la difesa della quale si doveva morire. Essendo l’incarnazione dell’Italia stessa. La raccolta delle cartoline delle varie serie, permetteva di realizzare un quadretto davvero bello, patriottico, edificante. Campeggiava anche la cartolina con l’Inno di Mameli, oppure con la preghiera del soldato ferito. Fu scomodato anche Dante per dare rilievo storico e aulico alle parole. Una cartolina fu anche benedetta nella Basilica del Santo di Padova, dato che una preghiera al Santo per antonomasia era a protezione dei soldati.
Se tutto questo può sembrare normale, dobbiamo tenere in considerazione anche la propaganda dietro le linee nemiche. Non si può pensare di combattere una guerra senza pensare di eliminare il nemico, e se il nemico si elimina, di solito, con le armi, le armi a inchiostro potevano aiutare convincendolo a non combattere più. Così ecco i volantini che venivano recapitati dietro le linee nemiche. Scrivevano che la guerra era inutile, se non addirittura già perduta, e che fosse assolutamente insensato pensare di continuare l’inutile sacrificio. Molto meglio arrendersi o disertare che pasteggiare con i topi in mezzo al fango. La propaganda si insinuava nelle menti scosse dal rombo continuo dei cannoni e voleva rovesciare le parole d’ordine dei comandi, insinuare dubbi e scardinare convinzioni, le stesse che avevano portato il soldato ad arruolarsi volontario, magari. Molti soldati austroungarici disertarono o passarono all’Italia proprio grazie a questa propaganda; si calcola che furono più quelli austriaci a farlo che quelli italiani contro i quali valeva lo stesso stratagemma. Anche verso di loro si mise in atto un’azione volta a convincerli che non certo la giovane monarchia italiana poteva tutelarli contro il potente impero austriaco.
L’azione pesantemente repressiva messa in atto da ogni Comando contro coloro che disertavano o sembravano venire meno ai doveri del combattente, fece circolare voci intimorite dinanzi a coloro che dovevano avere cura dei propri soldati per incitarli alla battaglia. E le fucilazioni spesso numerose che avvennero al fronte, soprattutto dopo due anni di guerra, non portavano certo il morale delle truppe ad essere alto, costrette a combattere per una guerra che non capivano più e che forse non avevano mai capita. Anche i Capi di Stato Maggiore avevano messo in campo strategie di comunicazione proprio per informare la truppa dei rischi che avrebbe corso se non avesse rispettato le regole imposte. Fu il caso del famigerato libretto voluto dal generale Cadorna che per alcuni significò un vero manuale del buon soldato, ma per molti una sorta di condanna a morte preventiva, dato il senso impositivo delle parole.
Altro importante fattore, furono le immagini. Durante quella guerra furono possibili le fotografie direttamente al fronte. I soldati si mettevano in posa per lasciare un ricordo di loro e mostrare il loro stato, forse per l’ultima volta prima di morire. Anche la fotografia fu importante per mostrare al nemico come si viveva meglio di lui dietro la prima linea, nelle trincee, nell’apparato degli armamenti che venivano dipinti come più efficaci, più forti, per indurre paura e quella necessaria sfiducia atte ad impedire di combattere come si sarebbe potuto. Nel corso della guerra, poi, molti accadimenti furono significativi per impostare politiche atte a sconfiggere il nemico anche con armi considerate più innocue. È il caso della rivoluzione russa che permise di dipingere il popolo russo come “mangiabambini”, non soltanto durante le ultime fasi del conflitto, ma anche e soprattutto successivamente.
L’evento riguardante i volantini più famoso, poi, fu quello voluto da Gabriele D’Annunzio con il famosissimo volo su Vienna. Non bombe contro la popolazione civile, ma un foglio di carta, lanciato dentro buste tricolore, che facesse capire agli austriaci, ai viennesi in modo particolare, come l’Italia volesse combattere non un popolo, ma per una giusta causa. E per farlo non voleva utilizzare solo le bombe, come avrebbero potuto essere sganciate sulla capitale in quell’occasione eroica, ma anche la penna, le parole, gli accordi. Un significato intrinseco molto importante che richiamava quella mirabile opera, tutta italiana, che aveva dato origine alla Croce Rossa, così come metteva le basi per molti concetti sviluppatisi in seguito.