La città ha sempre rivestito un ruolo importante nell’ambito della pittura europea ed occidentale in generale, sin dai vedutisti settecenteschi che immortalavano con precisione e dovizia di particolari piazze e viali, piene di vita o completamente deserte; tra questi autori del passato, ricordiamo Francesco Guardi, probabilmente il primo, ad infondere nel paesaggio un afflato lirico, a dare un “sentimento” alla scena rappresentata, anticipando ciò che faranno gli impressionisti: i primi a riconoscere il ruolo delle città nella vita quotidiana e quindi assurgerle a simbolo stesso dell’uomo moderno.
Così, con il passare del tempo, abbiamo visto rivivere, attraverso vedute di strade o edifici, le paure, le angosce, ma anche gli attimi di gioia e di contemplazione che ci accompagnano nella nostra vita e che continuamente si rinnovano nelle opere degli artisti contemporanei. Tra questi vi sono Daniele Cestari (1983), Valerio D’Ospina (1980) e Jeremy Mann (1979): tre pittori accomunati non soltanto dal tema metropolitano, ma anche da una comune visione sul “mestiere” della pittura: nell’importanza di una padronanza e conoscenza dell’arte e degli autori del passato, ma assolutamente contemporanei: in grado di riprodurre ed esprimere appieno ciò che ci circonda e si respira.
Daniele Cestari, ferrarese, ha girato il mondo, osservando ed immortalando scorci urbani, nella ricerca pittorica e conoscitiva della “città” in senso platonico: osservando le sue opere, infatti, comprendiamo il superamento e la probabile inutilità di singole descrizioni particolareggiate atte a ricondurci a una specifica realtà urbana. La città è vissuta da chi guarda e da chi si ritrova a camminare per le sue vie, come un qualcosa
di più grande che avvolge e ingloba il singolo e questo avviene, con le medesime modalità, in ogni luogo del mondo. Guardando i dipinti di Cestari vediamo che la meticolosa descrizione di palazzi e finestre, marciapiedi e manti stradali, a poco a poco lascia il posto alla materia pittorica che come “la nebbia che strofina la schiena contro i vetri” ricopre e modifica il tutto, donandogli una nuova identità.
Una visione quasi apocalittica, post moderna, con i colori smorzati, ridotti ad una quasi totale monocromia è, invece, la città dipinta da Valerio D’Ospina, autore tarantino trasferito da anni negli Stati Uniti. Le sue pennellate, veloci e dinamiche, riscrivono i profili di edifici e grattacieli, sottolineandone la verticalità. Giochi prospettici, visioni dall’alto o dal basso che creano in chi guarda sensazioni di vertigini o quasi soggezione, come quella provata di fronte alle grandi cattedrali gotiche del passato.
Una città “monumento”, spesso New York, che incombe sull’uomo, ma che lui stesso desidera dominare, abbracciandola con lo sguardo, ma che rimane distante, impassibile ed imperscrutabile. Uno scenario di pietra, ferro e cemento, dove l’uomo è sempre assente, nascosto o perso in questo moderno labirinto.
Nei dipinti di Jeremy Mann, pittore statunitense residente a San Francisco, invece, la città è lì, alla portata dell’uomo, che deve soltanto aprire una finestra per ritrovarsi pienamente immerso nella sua atmosfera. Una metropoli, spesso New York e San Francisco, da contemplare e da vivere come era la Parigi di Pissarro e Renoir, descritta soprattutto con luce, che ne è la protagonista indiscussa. Dal chiarore aranciato dell’alba al viola del crepuscolo, dai caldi ed avvolgenti raggi solari, ai mille bagliori e riverberi della notte: Mann decide di immortalare e raccontare il tutto, tornando spesso nello stesso luogo per vivere i cambiamenti, le sensazioni, mutate col mutare delle ore. Parallelamente a questi lavori l’autore si dedica anche a ritrarre delle figure femminili, indugiando su dettagli di abiti e gioielli, come un novello Boldini.