Il 1915, anno che segnava già un lungo periodo di combattimenti di posizione durante il primo conflitto mondiale iniziato da alcuni mesi, vide anche il punto più alto della drammatica vicenda del popolo armeno. Era già chiaro che la guerra non era più quella epica serie di battaglie seguite da graduati in monocolo e con divise lustre, ma un’ecatombe di ufficiali alla testa dei loro uomini. Ne erano già morti a migliaia, fermi a una strategia militare superata di gran lunga da una serie di innovazioni e tattiche mai viste prima, spesso alla testa dei loro uomini che cadevano come mosche a ogni assalto, a ogni lancio di gas. È facile, in tali circostanze, cercare di incolpare qualcuno di tutte le disfatte e di tutte le pericolose azioni nemiche, soprattutto se è necessario, e addirittura urgente, tacitare un’opinione pubblica stanca di un governo debole e di inutili tentativi diplomatici.
L’impero ottomano era da tempo debole e aggredito dall’imperialismo delle altre potenze europee, spesso addirittura un vero colonialismo nei confronti di territori che l’impero non riusciva più a difendere dalle mire espansionistiche straniere. L’impero islamico più grande della storia, fondato da Osman I tra fine Duecento e inizio Trecento, si stava sgretolando. E su uno scenario spesso fosco, si fece strada il partito dei Giovani Turchi che, nel 1908, salì al governo. I Giovani Turchi erano un partito nazionalista che auspicava per la Turchia un’innovazione in chiave europea. Il Paese doveva essere modernizzato e messo al passo delle altre potenze continentali. E per farlo doveva trovare un’identità completamente turca, atta a mettere in risalto le prerogative di un popolo e di una nazione sullo scenario internazionale. Le minoranze presenti sul territorio sembravano di ostacolo a questo progetto e, in chiave nazionalista, volevano l’omogeneizzazione etnica del Paese.
Una minoranza consistente era quella armena, che raggiungeva circa 3 milioni di persone, prevalentemente stanziate nel Caucaso e nell’Anatolia, come pure in parte dell’impero russo. Prevalentemente cristiani, gli armeni non godevano degli stessi diritti dei musulmani turchi nell’impero ottomano e da quando l’impero si era indebolito sotto le spinte nazionaliste e degli altri Paesi, gli armeni erano stati visti come nemici. Infatti, erano dislocati proprio nei territori più difficilmente difendibili e più vicini a diventare appannaggio di potenze straniere. Quindi fu relativamente facile incolparli dei problemi di ordine politico. Con lo scoppio della guerra, poi, l’impero ottomano era alleato con le potenze della Triplice Alleanza e subì varie sconfitte da parte dell’Intesa, soprattutto da parte della Russia.
Gli armeni vennero accusati di essere gli artefici di quelle sconfitte e il pretesto venne adoperato dai Giovani Turchi per deportarli in massa verso territori dove fosse meno pericolosa la loro presenza: le zone desertiche della Siria e della Mesopotamia. In realtà, la deportazione fu soltanto un modo per mascherare la decisione di decimare, se non cancellare, la popolazione armena. Gli uomini vennero, infatti, fucilati ancor prima di metterli in marcia, mentre donne, vecchi e bambini vennero costretti a camminare verso le aree di concentramento dove arrivarono soltanto una parte delle persone. Il maggior numero morì durante il viaggio per fame, stenti, violenze da parte dei militari che erano deputati al trasferimento. Molte donne si suicidarono e altre uccisero i figli per non farli più soffrire. Questo che si delinea come un genocidio, è sempre stato negato dalle autorità turche, sin dalla nascita dello Stato turco.
La negazione dell’intento deliberato di uccidere la popolazione, fa respingere le accuse di uccisione sistematica etnica, il genocidio appunto, ma le fonti storiche, basate sulle testimonianze e sull’analisi dei documenti pervenutici, fa ritenere certa la responsabilità politica del governo turco, che ben presto divenne una repubblica, grazie a colui che viene ritenuto il padre della patria, il generale dei Giovani Turchi Mustafa Kemal, detto Atatürk, il padre dei turchi appunto. Egli, nel 1923, sulle ceneri di un impero ottomano sbriciolatosi sotto i colpi del conflitto, proclamò la repubblica turca della quale divenne presidente a vita, fino alla sua morte, avvenuta nel 1938. A lui si deve la modernizzazione e laicizzazione del Paese: abolì il califfato, le scuole coraniche e i tribunali religiosi, introducendo i codici civili e penali ispirati a quelli europei, l’uso del latino al posto dell’arabo e dando alle donne il diritto di voto.
La conduzione delle riforme avvenne in chiave autoritaria, ma l’autorità politica non volle mai ammettere che gli armeni furono uccisi di proposito, anche dietro suo ordine. Gli armeni erano già stati accusati di fornire ai vari Paesi europei pretesti per ingerire nel territorio ottomano a causa della loro velleità di ottenere l’indipendenza, e quindi già nel 1895 e 1896 le autorità ottomane, capitanate dal sultano Abdul Hamid II, avevano comandato ai soldati curdi massacri ai loro danni, con oltre 200mila morti. L’idea non sembra dissimile vent’anni dopo, anticipata da pogrom ordinati dai Giovani Turchi già dal 1909. Al circa un milione e mezzo di morti si devono aggiungere i numerosi bambini islamizzati forzatamente e le donne armene inviate negli harem.
Della deportazione armena esistono numerose tracce e varie testimonianze. La più affidabile e accreditata è quella fotografica che ha documentato come mai si era potuto fino ad allora, la sofferenza di un popolo. Per attuare l’intento di allontanare gli armeni dal territorio impedendo, come si pensava, ulteriori problemi di ordine militare, favorendo così il panturchismo, il 24 aprile 1915 i notabili armeni di Costantinopoli furono fatti arrestare. Seguirà, nel maggio, il decreto di deportazione e poi di confisca dei beni, decreti che divennero operativi anche se mai ratificati dal Parlamento. I fatti si accavallavano. Molti uomini furono forzatamente arruolati e poi passati per le armi; altri vennero avviati al deserto, ma poi furono uccisi gettandoli in caverne, oppure nell’Eufrate o nel Mar Nero, oppure bruciati vivi. Alcune persone, poi considerate Giusti, divennero testimoni oculari dell’accaduto, così come alcuni riuscirono a scattare fotografie degli eventi, fatte pervenire in Germania e negli Stati Uniti e poi utilizzate per denunciare l’accaduto a livello internazionale. Tanto che esistono varie relazioni, da quella della Sottocommissione dell’ONU del 1973, a documenti del Parlamento Europeo che condannano, dopo avere definito genocidio, i fatti avvenuti.
Tra i testimoni, c’è anche il console italiano Giacomo Gorrini che dichiarò di non essere più in grado di mangiare o dormire dopo avere assistito, inerme, al massacro di quei poveri innocenti. E auspicò che proprio l’Italia potesse essere artefice della denuncia che avrebbe reso giustizia ai morti. Il ministro Talat, prima della grande azione di arresti del 1915, aveva intimato di non proteggere gli armeni, dediti agli atti peggiori, al guadagno materiale e non alle più alte e nobili attività in favore della razza e alla supremazia del popolo. Persone che non meritavano di vivere e per le quali si poteva pensare di non gestire altre forme di detenzione se non quelle di favorirne l’eliminazione.
Sembrano le misure messe poi sistematicamente in atto dal governo nazista nei confronti degli ebrei, una pianificazione che risulta dalle parole di altri notabili ottomani, che informavano di lavorare affinché altri armeni ancora morissero per cause naturali come fame e malattie indotte da stenti ai quali erano stati sottoposti. Si sente già nel 1916 ciò che diverrà tristemente famoso: il numero dei morti settimanale non era soddisfacente, bisognava agire in maniera più determinata. Così come risulterà dalle riunioni di Hitler con i suoi governatori di zona, quando l’eliminazione di ebrei e slavi avveniva per gare settimanali con premio a quel comandante che riusciva a farne eliminare di più dai suoi uomini.
Gli armeni erano considerati una razza maledetta che avrebbe decretato la fine dell’impero ottomano. Una fine che, in realtà, l’impero aveva già avviato da solo, per l’elefantismo con il quale si era mosso sullo scenario mondiale, così come era accaduto agli altri imperi che, con la Grande Guerra, sarebbero scomparsi, ma che pure aveva trovato come soluzione, forse unica, scatenare la propria rabbia e frustrazione su un anello debole, anziché su un solido problema da affrontare e risolvere. E già gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con Winston Churchill, erano consapevoli di questo agire contro un popolo che risultava sul territorio turco almeno dal settimo secolo.
Armin Theophil Wegner, malgrado sapesse di correre il rischio di essere ucciso per questo, scattò numerose fotografie che testimoniarono quanto accadeva contro gli armeni sotto i suoi occhi. Inviato in Medio Oriente per la campagna mesopotamica, a seguito degli accordi tra Germania e Turchia entrate in guerra, Wegner apparteneva al servizio sanitario. Fu osservatore consapevole della valenza degli episodi di una vera e propria pulizia etnica; oltre alle immagini, sono preziosi i suoi appunti, il diario, le numerose lettere che inviava soprattutto in Germania affinché qualcuno intervenisse per fermare il massacro al quale assisteva impotente. Venne alla fine scoperto e, accusato di attività clandestina contro la Turchia, fu espulso e tornò in Germania dove continuò la sua azione di sensibilizzazione a favore della popolazione armena. Scrisse il libro La via senza ritorno e, nel 1919, scrisse al Presidente degli Stati Uniti sostenendo la necessità di un Paese per gli armeni. Concluse la sua vita in Italia, dopo aver visto il ripetersi del genocidio ad opera dei nazisti che lo arrestarono e torturarono per la sua presa di posizione contro la politica perpetuata dal governo tedesco di Hitler. Sopravvisse al genocidio armeno Mesrop Minassian, nato in Anatolia, che con gli occhi di bambino di cinque anni si vide strappare alla mamma e condurre alle dipendenze di un musulmano che lo voleva convincere dell’aberrazione di essere un armeno, un diverso.
Il problema armeno è ancora oggi nell’agenda di molte conferenze e tema dibattuto a livello internazionale per la negazione del genocidio da parte del governo turco. Allo stesso tempo, quest’anno sembra avere segnato un punto di svolta per ridare verità storica ai fatti, quale unica via per la pacificazione nazionale, di qualsiasi nazione si tratti. L’approfondimento, l’accettazione degli errori passati o della diversa mentalità che contraddistingueva scelte e decisioni un tempo che oggi, invece, non prenderemmo più, sono l’unico modo per diventare più forti, sia come nazione che come parte del mondo. Dovunque ci si trovi. Talvolta questo importante e difficile percorso può essere aiutato anche dalla filmografia, come nel caso del film del 2014 The Cut, Il padre, del regista Fatih Akim, tedesco di origine turca. Un film sulla tragedia armena contestato dai nazionalisti turchi, ma che può contribuire ad approfondire la tematica, senza paura della verità. Che non sarà, non dev’essere, nuova fonte di violenza, ma volontà di riunione e di nuove basi per un miglior futuro.