Appena si entra negli spazi della galleria tutto cessa. Da un preciso momento ho smesso tutto. Mi sono spogliata del tempo ordinario, quello che scorre dai palmi delle mani, inafferrabile. Ne ho guadagnato un altro, un tempo spoglio, circolare, sospeso. Grande silenzio, grande rispetto, tutto il tempo di questo tempo.
Due artisti, due differenti generazioni, due modi di vestire i lavori apparentemente diversi, ma i corpi poetici sono lì che dialogano passeggiando nell'atmosfera. Vengo quasi presa per mano, sì, sono accolta da cotanto colore volumetrico. A ogni passo è come sfiorare la pelle sull'ovatta. Il mio sguardo oramai è accolto, avvolto, sono raccolta in un silenzio di luce. Quindi mutabile e vulnerabile, in preda alle oscillazioni dello sguardo. Come una ballerina in punta sulla neve fresca sfalda un bianco puro, crepando il bugiardo silenzio.
Morandi e Spalletti non hanno certo bisogno di futili presentazioni, le loro opere hanno viaggiato, viaggiano e continueranno a farlo in tutto il mondo. Due uomini, due artisti che hanno saputo parlare in maniera personale dell'ambiente e delle cose, tenendo sempre presente l'esempio dei grandi maestri italiani, da Giotto a Raffaello. Uno natio di terra emiliana, l'altro di terra abruzzese, entrambi accompagnati dalla natura soave e profonda di confini e orizzonti modellati dal tempo e dalla luce atmosferica. Appennini dalle curvature muliebri e misteriose.
La mostra alla Galleria d'Arte Maggiore di Bologna prorogata fino al 25 Gennaio, è stata pensata e proposta da Franco e Roberta Calarota con il contributo di Hélène de Franchis volendo dimostrare come l'arte di Morandi sia di grande attualità e sia stata fonte di riflessione e confronto per uno dei massimi esponenti viventi dell'arte contemporanea italiana, Spalletti, che non a caso è stato il recente protagonista di importanti mostre a lui interamente dedicate, come quelle ospitate al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli.
Morandi, nato nel 1890, ha sempre fatto dei suoi oggetti i protagonisti di un tempo astorico, la vita, la polvere di quelle tazzine e bottiglie è diventata pura materia, puro colore corpuscolare. Interstizi cromatici di vita. Lo stesso Morandi in un'intervista del 1957 affermava: "Per me non vi è nulla di astratto, peraltro ritengo che non vi sia nulla di più surreale, e nulla di più astratto del reale."
E difatti la sua pittura è in grado di andare oltre, di astrarre, di trarre fuori, oltre il tempo e oltre l'oggetto: avvicinandosi a una tela dell'artista bolognese, si viene travolti da una pennellata atmosferica, in grado di aprirci a un altro sguardo, a un'altra dimensione, di immergerci in un'autentica essenza, una presenza. Macchie di colore, niente più forme, tutto è indistinto. E gli oggetti smettono anche di essere tali.
Mi è impossibile non citare Remo Bodei per sottolineare l'urgente differenza che vi è tra cose e oggetti.Qual è la differenza tra una cosa e un oggetto? Un "oggetto" lo si considera con indifferenza, ad esempio per usarlo, comprarlo o venderlo. Una "cosa", invece, è un oggetto sul quale si sono depositati dei significati, che siano affettivi, intellettuali o altro. In genere dovremmo trasformare gli oggetti in cose per rendere sensata la nostra esistenza. Ma per depositare si ha bisogno di tempo, di tempo lungo, di quel tempo che oggi ci è negato. E quanto significato allora può la polvere avere? Una straordinaria creatura che giorno dopo giorno si andava a depositare come una sirenetta su quegli scogli di cose. Ecco le cose di Morandi sono precisi scogli attraverso i quali l'atmosfera e il colore si sono infranti per sempre, in un eterno presente.
A tal proposito mi sento di citare Stefano Benni: "Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra, talvolta vediamo la vita nell'aria. E la chiamiamo polvere." I colori terrosi e tenui di Morandi mi hanno sempre ricordato I mangiatori di patate di Van Gogh. Uno dei quadri più terrosi e umili atmosfericamente parlando. In silenzio, solo una lampada a olio illumina un'economia di cose e soggetti. Un momento di ristoro serale, e le patate, verdure semplici ma nutrienti dai colori pacati, morandiani, originarie, dalla terra, la prima polvere del mondo.
E' come se Morandi avesse esplorato i suoi oggetti sempre con una fioca luce, quasi a lume di candela o con una lampada a olio, come se illuminasse gli oggetti, con una pazienza religiosa, come se lasciasse alle tenebre ogni volta il compito di nascondere qualcosa da scoprire il giorno dopo. Nuova luce, nuovo sguardo, Spalletti tramite le sue tele monocromatiche ricrea nello spazio quello che Morandi faceva nella tela; l'artista stesso sostiene: "L'arte contemporanea si assume la responsabilità dello spazio, a differenza di quella antica in cui viene delimitato dalla cornice."
Le cornici delle opere di Spalletti vertono, si proiettano verso lo spazio, dorate si assottigliano, si allungano, non delimitano, ma proseguono. Il colore corre lontano, si dipana come un profumo infinito, oltre l'orizzonte. Lo stesso artista dice: " Il colore, come si sposta, occupa lo spazio e noi entriamo. Non v’è più la cornice che delimitava lo spazio. Togliendola, il colore assume lo spazio e invade lo spazio. E quando questa cosa riesce, è miracolosa". Una drammaturgia di spazio, luce e colore. Le opere dei due artisti affiancate nell'esposizione rassicurano lo sguardo, è un'esplosione piumata, così raffinata e fragile.
Le campiture di Spalletti, sono precipizi luminosi che seducono, e la vicinanza del corpo dello spettatore all'opera è una necessità. Gli azzurri atmosferici del cielo, i rosa dell"incarnato, o i grigi che accolgono, e il bianco come struttura emergente e portante di ogni lavoro dialogano con i terrosi e polverosi originari, colori morandiani; quello a cui si assiste è una polifonia non pretenziosa, umile, colori radicalmente nobili, per la semplicità, oceani di profonda complessità. Spalletti ha sempre affermato quanto il maestro bolognese lo avesse influenzato tanto da confessare in un'intervista per Flash Art, di trarre ispirazione proprio da un disegno da lui custodito. Speciali compagnie, in momenti di grande intimità. Perché solo l'intimità con le cose ci porta a una profonda comprensione.
Spalletti che ripone la capacità di racconto nella superficie del colore. E avvicinandosi alla tele, è un leggero crepitio dello sguardo, un sussurro di vento lontano, il colore che si espande sotto il nostro occhio in realtà è nebuloso, corpuscolare proprio come la polvere morandiana. Quasi tracce, segni, passaggi di colore, leggere emersioni, o profonde eclissi, quasi come lame su una pista di ghiaccio, sulle superfici di Spalletti sembra aver pattinato la luce, in un duello d'amore con il colore. La contemplazione e la meditazione e la necessità di tempi lunghi, il guardare le stesse cose con luci e posizioni diverse ha caratterizzato e segnato la poetica di entrambi gli artisti. Pavese, nei Dialoghi con Leucò scriveva: " ...sappiamo che il più sicuro è più rapido modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento questo oggetto ci sembrerà miracoloso di non averlo visto mai."
Spalletti diverse volte ha raccontato il proprio modo di lavorare, intenso, lungo, dopo aver dipinto per dieci giorni e aver controllato i tempi di essicazione passava all'abrasione. In questa fase i pigmenti si rompono, e fuoriesce il colore. In tutti i suoi lavori si trova il bianco, avvicinandosi alla tele ce se ne accorge, come secrezioni nebbiose la superficie restituisce una leggera polvere bianca che viene dall'interno. Quella stessa luce che le cose di Morandi emanano, una luce fantasmagorica dall'interno. Lavori estraenti magmatici, sobriamente incandescenti. Le tracce che ho scorto sulle superfici di Spalletti mi hanno ricordato subito i segni e le circonferenze che le cose morandiane lasciavano sui tavoli e i diversi basamenti. In entrambi i casi si può parlare di trame, di autentiche pelli, di origini vitali.
La pelle del mondo raccontata attraverso la luce, il corpo che viene narrato attraverso l'incorporeo. In questa esposizione, il tempo si è fermato nell'eterno presente, mi sono sentita come Klein nel 1958 totalmente accolta nel nulla, come se i confini del paesaggio si fossero fusi, nella totalità della luce bianca, accecante; se dovessi servirmi di un'opera per tradurre il senso del mio trovarmi rispetto a questo dialogo sarebbe Entrare nell'opera di Giovanni Anselmo.
Sono dentro, sono entrata con grande rispetto, in questo silenzioso, polveroso, universo fatto di trame, in questo vuoto pieno accogliente, con uno sguardo sempre differente, come ogni tramonto. Sfumato, vibrante, non pretenzioso. Un giorno bianco, così bianco, (titolo della personale di Spalletti al MADRE), che nevica dentro. Qui e ora, in questo presente senza confini. Precipita nell'atmosfera, e sulle cose, depositando la memoria di uno sguardo senza tempo.
Lungo e lontano scivola il colore.